La storia di Flavia è diversa dalle altre pubblicate su questo sito. E’ una voce diversa, un altro punto di vista. Puoi leggerla o ascoltarla.
La prima volta ho provato per il gusto di provare. Alla seconda occasione ho rifiutato per dimostrare che potevo dire di no, alla terza occasione ero convinta di avere la situazione sotto controllo e di poter fare come con le altre sostanze già provate.
Da lì a quello che è venuto dopo non ricordo bene cosa sia successo, la cosa che mi importava di più era che quando usavo l’eroina ero finalmente libera da tutte le cose che mi preoccupavano e che mi sembravano così importanti quando non la usavo.
Ci ho messo un po’ a capire che in realtà la schiavitù era il prezzo che dovevo pagare per quella finta libertà.
Senza quasi che me ne rendessi conto le giornate giravano intorno all’unico obiettivo di trovare i soldi per potersi drogare un po’. All’inizio era un mix, un po’ di cocaina e un po’ di eroina per non rimanere troppo agitati. Poi è diventata solo eroina, tutti i giorni, sempre cercando di sopravvivere fino a sera per ripetere tutto da capo fino alla sera successiva.
La mia dipendenza era totale, non c’era più nessuna sensazione di libertà, l’unico obiettivo era non stare male fisicamente e stordirmi quanto più possibile.
La sola persona alla quale non ho mai messo “le mani in tasca” è mia sorella. Per il resto ero sempre io a far sparire contanti e sottrarre oggetti da rivendere e che nel frattempo negavo ostinatamente. Proponevo di sottopormi a test antidroga senza nessuna remora. Con l’unico scopo di continuare a vivere la vita che stavo vivendo, non volevo rassicurare nessuno, volevo solo proseguire indisturbata nella routine delle mie giornate.
Fino a che le mie bugie non sono bastate più e con le spalle al muro ho dovuto spiegare ai miei genitori cosa stava succedendo, o meglio, ho dovuto spiegare ai miei genitori qualcosa che sapevano già.
Di istinto, da subito hanno tolto dall’equazione soldi, cellulare e amici.
Quando ho capito che non avrebbero ceduto a disattenzioni, che non mi avrebbero fatto trovare brecce nel sistema mi sono sentita soffocare. Quando abbiamo iniziato il percorso quella sensazione è peggiorata, io mi sono sentita così per anni: chiusa in una scatola con poca aria. Solo dopo ho capito che non erano le regole o la stretta sorveglianza a farmi stare così.
Abbiamo iniziato a frequentare un gruppo settimanale in cui il Dottore guidava i familiari ad imparare i comportamenti corretti per arginare la dipendenza. Il mio ruolo in quelle circostanze, l’ho dovuto capire con fatica, era in realtà stare zitta, almeno all’inizio. In quel periodo a parlare era la mia malattia e il Dottore zittiva la dipendenza non me, è stato faticoso e anche doloroso imparare a distinguere le due cose.
Io non ero la mia malattia, ma la mia malattia si manifestava tramite me. Non è scontato né automatico entrare in quest’ottica. Dopo qualche tempo avevo capito che per me era meglio stare zitta, a costo di farmi dei silenziosi pianti di rabbia, ma sempre e comunque con le labbra serrate.
Però ascoltavo sempre. Ho imparato a stare in silenzio anche mentre la mia famiglia diceva qualcosa. Ho imparato ad ascoltare come vedevano loro le cose. E’ stato un processo lungo, pieno di alti e bassi. Fuori dal gruppo ci rimaneva tutta la settimana da affrontare e loro sono stati molto bravi ad imparare quel che era giusto fare con me.
Ci sono stati momenti critici, se mi guardo indietro non mi riconosco. Ricordo nitidamente quella forza che mi esplodeva da dentro e che chiudeva le vene, sapere di dover stare zitti non significa non voler parlare e quella tensione è violenta dentro prima ancora che nelle sue esplosioni all’esterno.
Mentre proseguivamo il percorso, proseguiva anche la mia vita.
L’università mi teneva diverse ore a Milano e quelle ore erano una boccata di libertà per me. La libertà iniziava a sembrarmi una cosa molto diversa da quello che pensavo appena un anno prima ed era anche cercare di riempire la mia vita di nuove persone che potessero portarci del buono e che potessero aiutarmi a dimenticare il brutto che aveva abitato la mia vita. Era brutto vivere in quella maniera. E stavo iniziando a realizzarlo.
La cosa più brutta, che per un certo periodo ho considerato invece la più bella, era che non ero più la persona che conoscevo e pensavo di essere, ero un’altra persona a cui non interessava degli altri. Non solo nella misura in cui non ero interessata alla loro opinione, ma in un senso più ampio, gli altri non mi interessavano perché ero interessata ad altro che non sarebbe nemmeno corretto definire “me stessa”.
Con il passare del tempo ho riscoperto la gioia di cose piccole, come potersi fermare a fare un aperitivo con i colleghi, vedere Milano con il buio e poi tornare a casa e poter raccontare tutto. Non c’era più nulla da non poter dire: questa è stata una delle prime cose che mi ha fatto sentire e capire che la battaglia che stavamo combattendo come famiglia mi stava regalando la vita un’altra volta.
Non essere schiava dei segreti e non aver bisogno di niente per essere me stessa sono state le cose che mi hanno fatto dire di nuovo “sto bene”. E sentivo e sento ancora oggi dopo tanti anni di poter dire “sto bene” praticamente sempre, indipendentemente dalle cose quotidiane anche brutte che possono succedermi.
La vita mi è stata data una seconda volta ed è da quando l’ho capito che mi tengo stretta questa consapevolezza. Pensare di avere una malattia sempre in agguato potrebbe far sentire in trappola. Io invece ho scelto che quello a cui voglio pensare è che la mia famiglia prima ed ora anche io sappiamo tenere in gabbia questa malattia.
E se sappiamo fare questo chi o cosa esattamente può fermarci?
(F.)
