Francesca, una sorella, testimonia che non tutto va secondo i nostri piani e i nostri desideri. Eppure si può trovare la forza di ricominciare a camminare. Puoi leggere o ascoltare.
Era il 2017, era sera ed ero al lavoro, un ristorante a un minuto da casa dei miei genitori.
Sento una sirena e mi si chiude lo stomaco. Telefono a mia mamma, le chiedo cosa è successo, se Marco sta bene.
Mi risponde di no, l’ambulanza che ho sentito è per mio fratello. Corro a casa e poi la corsa in ospedale.
Parlano tutti di sovradosaggio quella sera ed anche il giorno successivo, i medici ci spiegano che c’è stato un sovradosaggio di una certa sostanza. Allora prendo tutto il coraggio che ho e pronuncio la parola che nessuno voleva pronunciare: overdose.
Io avevo 23 anni e mio fratello 20.
Il mondo si è sgretolato attorno a me, non avevo più ragione di esistere se nemmeno lui aveva ragioni per farlo. La mia ragione di vita diventò il tenere in vita Marco: non potevo accettare di andare avanti e lasciare lui indietro.
In fondo la fretta che abbiamo nel raggiungere le tappe della vita è imposta dalla società, ci avrei messo di più degli altri ma almeno al traguardo ci sarei arrivata insieme a lui e non da sola.
Nel 2023 avevo 29 anni e non stavo raggiungendo i miei obbiettivi più lentamente degli altri, semplicemente non avevo più obbiettivi.
Non ho mai smesso di cercare aiuto e ho sempre provato ad alleviare il dolore che mi portavo dentro andando da psicologi, psichiatri e ancora psicologi … quando, dopo l’ennesima ricaduta di mio fratello, decido di riprovare ancora una volta a trovare una ragione per andare avanti.
Non è stato facile trovare qualcuno a cui interessasse la mia sofferenza, ho chiamato diversi SERD chiedendo aiuto in quanto familiare, dichiarando di avere bisogno di qualcuno che mi dicesse come reagire alla malattia di mio fratello che negli anni mi aveva logorato.
Per anni mi sono sentita sbagliata per la sofferenza che provavo nei confronti della malattia di Marco. Nemmeno psicologi e psichiatri hanno mai accolto il senso di responsabilità e l’immenso dolore che provavo nei suoi confronti.
Così trovai La Tenda. Cercavo un posto in cui sentirmi al sicuro ma soprattutto, in cui sentirmi compresa, avevo bisogno di aiuto.
Lì tutti capivano come stavo, nessuno mi giudicava in ciò che sentivo, nel dolore che mi portavo dentro perché tutti si portavano dentro quel dolore. Piano piano ho individuato nuovi obbiettivi e ricominciato a camminare.
Ho capito che Marco ed io non possiamo condividere la stessa strada perché non significherebbe muoversi più lentamente, ma stare fermi entrambi nel percorso della vita.
Ringrazio immensamente le persone che custodiscono questa associazione che per me è stata ed è una cura, un abbraccio e una speranza nel vedere un futuro sereno per me stessa.
(F.)
